Un uomo si confonde, gradatamente, con la forma del suo destino;
un uomo è, alla lunga, ciò che lo determina.
(J.L.Borges)
Ho pensato seriamente di tornare a scrivere in questo spazio virtuale qualche giorno fa, sotto un sole cocente, leggermente ansimante per l’afa, in attesa di cercare ristoro in un qualche refolo di vento. Sono seduto su una roccia e ho preso in mano la macchinetta fotografica, ma nello stesso momento avrei voluto prendere in mano un taccuino ed iniziare a scrivere, nuovamente. Di fatto in questi ultimi tre anni ho avuto un rapporto positivamente conflittuale con la scrittura.
Non ho più scritto dei posti che visitavo, e ho scritto di me, più che altro per me: su taccuini, sulle note del telefono, su quaderni, agende e computer . Le prime volte l’esaltazione nel decidersi ad ordinare le proprie idee si contrapponeva contemporaneamente al timore di guardarsi eccessivamente dentro. Bisogna tener duro all’inizio, è un dentro o fuori, o tutto o niente. Niente compromessi, niente mezze scelte. Ed è questo il grande dono che la scrittura può fare ad ognuno di noi. Dipende dai punti di vista: io ho deciso di rileggermi.
Tornando allo sperone, è stato un brivido lento, come un vecchio retaggio, un’antica abitudine. Sentirsi un flâneur delle alte quote. Guardare aldilà dello spazio e del tempo, e percepire la propria presenza. Fermarsi e imprimere questo istante nella propria mente, per ordinarlo accuratamente su di un foglio.

“Non ricordo il motivo per cui le montagne hanno iniziato ad incuriosirmi, soprattutto queste montagne, specialmente queste rocce e queste meravigliose piante che le contornano, questi paesaggi così aridi ma al contempo rigogliosi di un verde quasi tropicale, acceso ma allo stesso confortante. E questi tornanti, sprezzanti delle doline e della morfologia irregolare, che accarezzano la piana e ascendono lentamente verso l’ultimo avamposto di civiltà. Una bretella d’asfalto che taglia prima perpendicolarmente la piana per poi risalire come un ciclista verso quote più alte. Da quassù la prospettiva è ottima, e le condizioni del tempo consentono di avere una visione più ampia dello spazio che ci circonda. Le nuvole che sbattono sulla cresta che si allunga verso est, ad intervalli regolari si sfaldano e si riformano, dando un senso al tempo. Da un lato il cielo è sereno, dall’altro ci sono le nuvole, ma noi siamo più in alto. Possiamo comprendere come le nuvole non siano perpetue, ma solo un strato vaporoso e compatto che ci divide dal cielo. Ne esclude la vista, ma non elimina mai la presenza. Il sole resta, così come resto io.

La vetta principale si staglia di fronte a me, vedo il sentiero che la percorre e che poi si snoda lungo le sue pareti rocciose che in questo momento si nascondono alla mia vista, coperte da nubi rapide e sfuggenti, un po’ come le emozioni. È uno spettacolo magnifico ed il silenzio attorno è la miglior colonna sonora. Ho trovato pochi altri escursionisti, mio fratello che è con me si ferma e guarda anche lui il panorama. Gli indico le vette, i luoghi e le memorie di questo enorme anfiteatro naturale che contorna una depressione glaciale costellata da decine di doline, un susseguirsi di alture, pareti rocciose, sentieri scoscesi. È maestoso e sacrale, è una testimonianza concreta di cosa sia la Terra, di come il vento abbia scolpito dolcemente le vette e le pareti che tendono ad esse, di come l’acqua abbia scavato le rocce e queste verdi colline che declinano a fondo valle, di come la neve e il ghiaccio abbiano protetto e modellato a loro piacimento questi terreni, di come abbiano ammantato anche il più piccolo dei sassi con il loro tiepido candore, proteggendolo dalle intemperie di un inverno che a queste quote può essere artico nella sua accezione più profonda.

L’aria è pura, e le mie narici ringraziano. Respiro a pieni polmoni mentre cerco di imprimere ancora più sensazioni e cerco di cogliere qualche sfumatura di questo luogo. Di certo è un luogo felice, un piccolo Eden che ho imparato a condividere e a vivere il più possibile. È dove mi perdo con lo sguardo mentre le gambe continuano ad andare, e la mente prova a dare forma a ciò che si prova mentre si procede. Mi sento meravigliosamente piccolo e umano in questi luoghi. Mi sento vicino come non mai allo spazio e al tempo, al mondo, e lontano dai problemi e dalle tensioni. In questo luogo i ricordi hanno valore quasi terapeutico, antichi o recenti che siano. Ma ognuno di loro rappresenta un fotogramma, anche solo un attimo fugace. Ho vissuto momenti eterni in questo luogo. Io sono questo luogo.

Pavese diceva che non esiste luogo più inabitabile di dove siamo stati felici, ed in parte è vero, ma negarsi per paura di rivivere qualcosa che non sarà più è puro autolesionismo. Tornare in quei luoghi significa andare oltre, dare un senso concreto ai ricordi stessi. Ad esempio, ricordo dove tutto è nato, quando da bambino, prima di attraversare la grande galleria, tendevo il naso verso l’alto con il viso appoggiato al finestrino della macchina, e guardavo intimorito le vette che sovrastavano il paesaggio. Ne ero affascinato, ed il resto del viaggio lo passavo ogni volta a cercare sul mio atlante dell’Italia i nomi di quelle montagne che sembravano quasi oscurare il cielo, come se volessero nascondere qualcosa alle loro spalle.
Ricordo la prima volta in cui sono salito fino al rifugio per poter così vedere cosa ci fosse dietro quella imponente barriera rocciosa, e vidi che vi erano altre montagne, profonde vallate e spazi verdi, interminabili, eterni. Mio padre è stata la prima persona a venire qui con me, il primo con cui ho condiviso la fatica di una breve ma comunque piacevolmente intensa salita. È un momento che custodisco silenziosamente, così come i successivi. Ogni ricordo è qui custodito tra “infiniti silenzi e profondissima quiete”, protetto dal vento e dalle montagne, sedimentato nelle rocce che puntellano questo sentiero ed ogni sentiero, diventando infinito.
E ora di riprendere il cammino, la vetta di Monte Aquila è vicina e mi è venuta anche fame.”
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